AntichiRitorni
26.09.2015 - 23:39
Muzio Scevola dinanzi a Porsenna
Al popolo romano piaceva pensare che ci fosse un passato, relativo alla storia di Roma repubblicana, in cui gli uomini erano ancora capaci di compiere grandi gesta in nome di un ideale supremo: la “res publica”, ossia Roma.
In un epoca storica fatta di trasformismi e dominata da codardia, dove prevale sempre e comunque l’interesse del singolo, è difficile pensare che ci sia mai stato un tempo in cui la politica era nobile arte e la parola ‘cittadino’ era gremita di lealtà e dignità. Forse non ci credevano nemmeno i nostri antenati latini, tuttavia al popolo romano piaceva pensare che ci fosse un passato, relativo alla storia di Roma repubblicana, in cui gli uomini erano ancora capaci di compiere grandi gesta in nome di un ideale supremo: la “res publica”, ossia Roma. Tra i numerosi esempi di veri e propri eroi (se non martiri) per la patria i latini ricordavano Attilio Regolo. Ci troviamo ai tempi della Prima guerra punica, a guidare l’esercito romano contro la rivale Cartagine è il console Regolo, che però viene catturato durante una battaglia presso Tunisi. Lo storiografo Tito Livio e il poeta Orazio raccontano che Cartagine decise di inviare proprio Attilio Regolo a Roma, benché prigioniero, per persuadere i Romani ad arrendersi, in tal caso lo avrebbero liberato, diversamente sarebbe dovuto rientrare a Cartagine ed essere condannato a morte. La leggenda vuole che Regolo, uomo di nobilissima indole e rara virtù, non solo, una volta giunto a Roma, persuase i connazionali del contrario – ossia a continuare la guerra – perché certo che ormai Cartagine non potesse più resistere, ma, per mantenere fede alla parola data, ritornò anche presso i nemici, andando dignitosamente incontro alla morte. Inutile dire che Roma vinse la guerra. Tra le altre figure ‘eroiche’ dell’età repubblicana troviamo Publio Decio Mure. La fonte è sempre Tito Livio che racconta come, durante le Guerre sannitiche, che misero a dura prova i Romani, il console Decio a capo dell’esercito, quando si accorse che le sorti della battaglia erano decisamente sfavorevoli per i suoi uomini, per amor di patria decise di ricorrere al rituale della “devotio”. Quest’ultima era una pratica antichissima, per cui il comandante dell'esercito si immolava agli Dei Mani per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza e la vittoria dei suoi uomini e la morte degli avversari (secondo la logica magico-religiosa “una vita per una vita”). Il rituale consisteva nell’indossare la toga praetexta, velandosi il capo, e recitare delle formule; ciò mirava ad attirare solo su di sé la collera degli dèi, per poi gettarsi a capofitto tra le schiere nemiche (portando con sé la maledizione). Chi non ricorda poi Muzio Scevola? Il cui nomen deriva dal latino “scaeva” (mancino). Si narra che nel 508 a.C., mentre Roma era assediata dal re etrusco Porsenna, l’aristocratico Muzio Cordo cercò di entrare nell’accampamento nemico per uccidere il re, ma fu catturato e portato al cospetto di Porsenna dove si dice affermò: «La mia mano ha commesso un errore ed io ora la punisco per questo imperdonabile errore», ponendo la mano destra su un braciere ardente e lasciandola finché essa non fu completamente bruciata; per questo gesto, denso di estremo coraggio, il re etrusco decise di salvargli la vita e di liberarlo. Da quel giorno il suo nome cambiò da Cordo a Scevola. Chissà se il popolo italiano e chi ci governa ricordino questi illustri antenati…
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