AntichiRitorni
25.10.2015 - 00:22
Arria e Cecina Peto
Scriveva Lucio Anneo Seneca nel trattato “De ira” «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo». Tale frase potrà indignare molti o lasciare perplessi altri, specie in un’epoca come la nostra dove si discute tanto sull’importanza del valore della vita; eppure non bisogna pensare che i nostri antenati latini disprezzassero la vita, al contrario ritenevano questa fondamentale tanto quanto la morte. In particolar modo, gli Stoici attribuivano così tanta importanza alla vita in quanto tale, da rifiutarla quando questa si fosse ridotta ad un semplice «mendicare l’esistenza»; tale rifiuto era visto come un estremo gesto di coraggio. Orbene, per valutare la frase di Seneca, bisogna tener conto che il poeta era un filosofo stoico, in più è necessario considerare qual era il sistema di valori romano. Alla luce di ciò, capiamo bene che il cristianesimo ha sovvertito con i suoi principi – seppur legittimi – quelli che erano gli ideali della società romana, una società dove ad essere disonorevole non era il suicidio ma il perpetrare una vita che non è vita, ovvero che non sia degna di essere vissuta. Non è un caso che - quando nel 65 a.C. fu accusato dall’imperatore Nerone di aver partecipato ad una congiura contro di lui e fu condannato alla pena capitale - Seneca si sia tagliato le vene, dandosi cioè la morte per propria mano; lo stesso si dice fece anche Petronio, trovandosi nella stessa situazione, non senza prima però aver inviato a Nerone i “codicilli”, dove lo accusava, senza peli sulla lingua, di tutte le nefandezze compiute. È bene specificare, inoltre, che non tutti i suicidi erano ritenuti onorevoli; non lo era ad esempio l’impiccagione (vista come una morte tipicamente femminile): un uomo per essere ‘vir’ doveva versare sangue e dunque la morte più apprezzata era certamente quella tramite spada o pugnale. A tal proposito, un noto esempio di coraggio al femminile è quello di Arria Maggiore, moglie di Cecina Peto, che – stando al racconto di Plinio il giovane - quando il marito fu condannato a morte dall’imperatore Claudio, temendo che non avesse il coraggio di suicidarsi prima della cattura, si colpì al ventre, dopodiché, estraendo il pugnale, lo porse al coniuge dicendo “Pete, non dolet!” (Peto, non fa male!) e spirò. Il più noto suicidio della storia romana è, tuttavia, quello di Catone Uticense, uomo incorruttibile, emblema della rettitudine e simbolo della libertà contro la tirannia. Quando Catone si rese contro della disfatta a Utica contro le truppe di Cesare, avendo coscienza che, sebbene avesse potuto essere risparmiato, la Repubblica, la vita per cui aveva combattuto e, ancor più, gli ideali per cui aveva vissuto non sarebbero più esistiti, preferì darsi la morte, piuttosto che vivere come un rinnegato e un codardo. Il suo gesto già presso gli antichi era interpretato come una vittoria sulla sorte, al punto che Lucano asserì “victrix causa deis placuit, sed victa Catoni” (la causa vincitrice piacque agli dèi, ma quella dei vinti a Catone); tale fu l’apprezzamento per il suo coraggio che anche Dante Alighieri, benché cristiano, non poteva collocare Catone nell’Inferno, capendo bene che il suo suicidio era altro dal semplice annientamento di sé, era altro da egoismo puro, era – paradossalmente – un omaggio alla vita.
«Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, che non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara»
(Purg. I, 70-75)
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