AntichiRitorni
19.06.2016 - 01:50
Forse si può sfuggire alla giustizia terrena ma non a quella divina. Questo assioma sembra valido per quasi tutte le religioni, in particolar modo però per quella dell’antica Grecia, dove la ‘punizione’, o meglio ancora la ‘persecuzione’, non avveniva dopo la morte ma durante la vita. Se si commetteva un delitto capitale (come l’uccisione di un congiunto), non c’era scampo, non c’era luogo dove il colpevole potesse rifugiarsi, non c’era attimo in cui potesse essere lasciato in pace; a tal proposito i Greci non avevano Sigmund Freud ma avevano delle ‘demoniache’ figure chiamate Erinni. Le Erinni (che i Latini chiamavano Furie) erano la personificazione della vendetta divina e del ‘rimorso’ che attanaglia l’individuo; divinità antiche quanto la stessa creazione dell’universo, il cui compito era perseguitare coloro che si erano macchiati di delitti di sangue, fino ad indurre il reo alla pazzia. Le Erinni erano tre, Aletto ("colei che non riposa”, o “colei il cui nome non può essere pronunciato”), Tisifone (incaricata di castigare i delitti di parricidio, fratricidio, matricidio, omicidio) e Megera ("l'invidiosa", era preposta ai delitti quali il tradimento e l’infedeltà coniugale), e si racconta che indescrivibile fosse il loro aspetto talmente erano terrificanti, esattamente come terrificante e indicibile è la brutalità di chi commette un delitto di sangue. Si narra che fossero geni alati e che assomigliassero a vecchie orribili con serpenti o ali di pipistrello al posto dei capelli, con occhi di fiamma e bocche perennemente spalancate con cui urlavano contro il colpevole di turno, senza dargli tregua, picchiandolo ripetutamente. Nel mondo greco erano talmente temute, che si evitava persino di pronunciarne il nome, al punto che quando era necessario nominarle si utilizzava l’eufemismo Eumenidi (ossia le “Benevole”) o Semnái (“Venerande”) per ingraziarsele. Erano note al grande pubblico grazie al fatto di essere spesso protagoniste di poemi e tragedie; in particolar modo gli antichi raccontano che il tragediografo Eschilo (V sec. a.C.) fu il primo a portare in scena un dramma dove figuravano le Furie che perseguitavano il personaggio di Oreste, dapprima reo di aver lasciato invendicato il padre Agamennone (tradito e ucciso dalla moglie Clitennestra), in seguito colpevole di aver ucciso la madre per vendicare il padre (una matassa da cui il povero Oreste non sapeva come uscire!); in tale occasione si narra che gli attori vestiti da Erinni erano talmente spaventosi che le donne incinte presenti a teatro abortirono. Naturalmente si tratta di un aneddoto, ma tuttavia utile a rendere la paura che il popolo greco prima, e quello latino poi, nutrivano nei confronti di queste entità. A ben guardare, infatti, millenni prima della nascita della psicanalisi, tali figure mitologiche a cosa servivano se non a spiegare in maniera semplice e diretta che dalle proprie colpe non si sfugge? Ovvero, anche quando si riesce a farla franca, a sfuggire alla giustizia terrena, in fondo non si è mai liberi, perché la colpa e il rimorso ci perseguiteranno a vita, fino all’espiazione del proprio destino.
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