AntichiRitorni
04.09.2016 - 02:26
L’ermafroditismo è la condizione per cui individui appartenenti ad una particolare specie producono sia gameti femminili che maschili; tale fenomeno è diffuso in natura nelle piante e in alcune specie di invertebrati. Nell’immaginario collettivo, tuttavia, quando si sente parlare di ermafroditismo si pensa subito ad ‘anomalie’ relative agli organi della sfera sessuale, questo perché la letteratura antica e l’iconografia d’età moderna hanno attinto più volte al mito di Ermafrodito. Questo bellissimo giovinetto era figlio di Ermes e Afrodite, di cui porta entrambi i nomi. Come racconta Ovidio, arrivato all’età di quindici anni, il giovane dio volle andare in giro per il mondo, giungendo così in Caria (regione dell’attuale Turchia) dove si trovava una fonte. Qui, s’invaghì di lui la ninfa Salmace. Nonostante le continue ‘avances’ e le manifestazioni d’amore offerte dalla bella ninfa, Ermafrodito si dimostrava schivo e respingeva Salmace, al punto da gettarla nel completo sconforto, folle di passione. Fu così che, approfittando di un momento in cui il ragazzo decise di fare il bagno nella fonte per trovare refrigerio dalla calura, la ninfa si gettò anch’ella, avvinghiandosi al corpo del giovane, stringendolo sempre più forte fino a formulare questa preghiera: «“Lotta pure, improbo, non mi sfuggirai! Fate, o dei, che mai costui si stacchi da me, né io da lui”. Gli dei la ascoltarono. I due corpi si congiunsero e compenetrarono tanto da assumere un unico aspetto. […] avvinti nel tenace amplesso, non erano più due ma un corpo doppio che non poteva essere definito né maschio né femmina», così narra Publio Ovidio Nasone nel libro IV delle “Metamorfosi”. Nel momento in cui Ermafrodito si rese conto della sua nuova natura, pregò i genitori di scagliare una maledizione sulla fonte, ossia che chiunque vi si immergesse ne uscisse fuori ‘mutato’, esattamente nel modo in cui era successo a lui. Secondo una lettura simbolica l’unione dei due in un unico corpo potrebbe simboleggiare il matrimonio, inteso come ricongiungimento delle due nature ‘primigenie’; difatti, nel “Simposio” di Platone si racconta che originariamente esistevano creature androgine con due teste, quattro braccia, quattro mani, quattro gambe e due organi sessuali ed erano ‘tondi’ (di qui l’immagine della mela). Questi uomini erano perfetti ma al contempo superbi, per cui si ribellarono a Zeus, al punto che il padre degli dèi decise di separarli brutalmente a metà. Da allora l’uomo vive un costante sentimento di incompletezza, andando alla ricerca costante della sua ‘metà’. Per ovviare a questo senso di frustrazione Zeus inviò Eros, affinché gli uomini, amandosi, attraverso il ricongiungimento fisico potessero ricostruire, seppur in maniera fittizia, l'unità perduta. L’ermafrodito è dunque un essere ‘sacro’, perché ha ritrovato la sua unità. Inutile dire che il mito venne ripreso anche in psicanalisi, in particolar modo da Freud e Jung, proprio quest’ultimo asseriva: «Nessun uomo è tanto virile da non avere in sé nulla di femminile, anzi è la rimozione dei tratti femminili che fa sì che queste pretese controsessuali si accumulino nell'inconscio. Allora l'immagine della donna diventa per l'uomo il ricettacolo di queste pretese e l'uomo nelle sue scelte amorose soggiace alla tentazione di conquistare quella donna che meglio risponde al particolare carattere della propria femminilità inconscia. Questa stessa cosa avviene nella donna». Dunque, se è giusto quanto affermava Freud, per cui ciascuno nelle prime fasi di crescita sperimenta l’ermafroditismo (inteso come bisessualità), questo è il simbolo del nostro inconscio dove tutto è indifferenziato e da cui l'umanità si è emancipata attraverso le differenze instaurate dalla ragione, che distingue il maschile dal femminile. «Di questo indifferenziato abbiamo esperienza nei sogni dove l'assenza di coscienza "con-fonde" tutte le cose, per cui io sono ad un tempo, maschio e femmina, adulto e bambino, dove naufraga la successione temporale, la sequenza spaziale, dove non vige il principio di non contraddizione e tantomeno il principio di causalità» (per quest’ultima parte rinvio ad un interessante articolo di Repubblica di Umberto Galimberti).
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