AntichiRitorni
16.10.2016 - 01:30
Qualche giorno fa il nostro direttore ha coniato un azzeccatissimo titolo, quanto mai letterario, in relazione al pareggio del Foggia Calcio con l’Akragas: Zero in Storia: il Foggia ignora la maledizione di Falaride e finisce ustionato nel toro di bronzo dell'Akragas, che riassume una nota tortura ‘inventata’ dal terribile tiranno di Agrigento (l’antica città greca di Akragas per l’appunto). Per chi non conoscesse questa storia siamo ‘lieti’ (si fa per dire) di raccontarvela. Come narra lo scrittore cristiano Orosio nella sua “Storia contro i pagani”, il tiranno Falaride commissionò a Perillo di Atene una inusitata e assai sadica tortura per i criminali, ovvero la costruzione di un toro di metallo (probabilmente bronzo o rame, stando alla testimonianza di Dante Alighieri, che cita l’episodio in Inf. XXVII, 7-12) cavo all’interno, così che vi si potesse adagiare un uomo steso. Una volta chiuso dentro il malcapitato, sotto la pancia del toro veniva acceso il fuoco, cosicché pian piano il metallo si riscaldava e la ‘vittima’ veniva letteralmente arrostita e avvolta dal metallo rovente, senza che avesse la possibilità di muoversi. La morte era lenta e straziante e, dato che il tiranno non voleva che le sue orecchie fossero turbate dalle urla, né che le sue narici dovessero subire la pena dell’odore acre di carne umana che bruciava (ci mancherebbe!), Perillo pensò bene di creare un ingegnoso sistema nella testa dell’animale che convertita le urla nel verso di un toro rilasciando nell’aria oli e sostanze profumate che coprivano il fetore; il suo unico sbaglio fu quello di saggiare per primo il meccanismo: inutile dire che Falaride lo fece uccidere. Anche i Romani erano un popolo avvezzo alle torture, in special modo si ricordano i “summa supplicia” (i sommi supplizi) a cui potevano essere condannati i colpevoli di un qualche delitto: la “damnatio in crucem” (condanna alla crocifissione), spesso accompagnata da “crurifragium” (cioè la frattura delle ossa lunghe delle gambe); “damnatio ad furcam” (impiccagione), “capitis amputatio” (decapitazione), “damnatio ad metalla” (condanna ai lavori forzati), “vivi crematio” (essere arsi vivi), “damnatio ad bestias” (condanna ad essere divorati dalle bestie). In merito a quest’ultima vi era una particolare pena, nota come “poena cullei”, dal nome del ‘sacco’ in latino (cioè “culleus”) destinata, in età arcaica, ai colpevoli di parricidio: il reo veniva messo in un sacco con un gallo, una scimmia, un cane e una vipera, successivamente il sacco veniva gettato nel Tevere. Prima di trovare la morte per annegamento o soffocamento lo sventurato veniva straziato dagli animali. Di pene ‘ingegnose’ ce n’erano ancora tante, ma per oggi ci fermiamo qui.
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