AntichiRitorni
15.01.2017 - 00:35
“In che peccai bambina, allor che ignara / di misfatto è la vita, onde poi scemo / di giovanezza, e disfiorato, al fuso / dell'indomita Parca si volvesse / il ferrigno mio stame?”. Chi parla è la poetessa Saffo, a cui Giacomo Leopardi diede voce in una delle più belle ‘canzoni’ da lui scritte: “L’ultimo canto di Saffo” per l’appunto, dove il poeta di Recanati immagina che la poetessa greca fosse una donna piuttosto bruttina e per questo respinta dal giovane pescatore Faone che ella amava. In questo passo Saffo si chiede quale peccato (ammesso che ne abbia commesso uno) ha mai compiuto quand’era bambina, da meritarsi che, privo di giovinezza e sfiorito, il suo oscuro filo della vita si avvolgesse al fuso dell’implacabile Parca. Ma chi era questa Parca? Le Parche erano per gli antichi Romani le divinità del destino, corrispondenti alle Moire nella mitologia greca. Narra infatti il poeta Esiodo, nella sua “Teogonia”, che le Moire (il cui nome vuol dire “parte assegnata, ciò che spetta” e di conseguenza “il destino, la sorte”) erano figlie di Zeus e Temi, la dea della giustizia, e presiedevano al fato. Dimoravano negli inferi e il destino di tutti gli uomini era pertanto nelle loro mani: la prima, Cloto (il cui nome vuol dire “io filo”), filava lo ‘stame’ della vita; la seconda, Lachesi (che vuole dire “avere in sorte”) avvolgeva il filo del destino attorno al fuso, stabilendo la quantità che dovesse toccare a ciascuno; infine la terza, Atropo (ossia “colei a cui non si può sfuggire”, “l’inesorabile”), recideva il filo, decretando la fine dell’esistenza e la dipartita immediata dell’anima (ormai ‘tagliata’ via dal corpo) nell’Ade. Le Moire rappresentavano il concetto stesso di ‘destino’ a cui nemmeno gli dèi potevano opporre resistenza; infatti il loro potere in taluni casi era superiore persino al volere dello stesso Zeus, questo per non alterare gli equilibri naturali dell’universo. Per cui, sebbene temute e odiate, queste divinità erano il baluardo dell’ordine dell’universo contro il caos: la loro essenza stava a spiegare che tutti dobbiamo inesorabilmente nascere, vivere e morire. Questa è la legge suprema e questa sempre rimarrà, poiché nulla si può contro di essa. O forse no? Stando alla poetessa Saffo descritta da Leopardi una cosa l’uomo può fare: “Morremo”, ossia decidere di porre fine alla propria vita da sé, invalidando la sorte scelta per noi dalle divinità, emendando “il crudo fallo del cieco Dispensator de' casi”: questa l’unica alternativa dell’uomo contro la quale nulla può persino il destino, persino le Parche. Morire eroicamente e scegliere come e quando porre fine alla propria vita se questa non è altro che sofferenza.
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