I pensieri dell'Altrove
12.11.2017 - 10:18
Una veduta di Rocchetta Sant'Antonio (Fg)
Novembre sta al mio paese come il mare sta a Rimini. Questo mese fa togliere gli occhiali da sole e si vedono allo specchio le cose per quello che sono. Il mio paese è antico, accogliente, forte, elegante. Ma vuoto. Desolato e vuoto. Ogni anno facciamo la conta dei numerosi addii verso la strada dei cipressi, tracciamo la sottrazione di nuove dolorose partenze di vivi per luoghi lontani per poter rimanere vivi, contiamo altre case che si chiudono, di altri vicoli che si impoveriscono di passi. Ci sta mancando tutto: strade, servizi, entusiasmo. Un giorno non funzionano i computers, un altro i telefoni, qualche volta il bancomat. Noi siamo gente che si arrangia, si adatta, come tutti i popoli delle periferie siamo abituati ad avere poco e ad essere considerati ancora meno. In un persistente senso di diminuizione delle offerte sono rimaste in piedi solo le proteste, ma onestamente dopo un po' di solleciti e di richieste di attenzione anche le proteste perdono la forza iniziale e si indebolisce la vena primaria della domanda. È certamente vero che tutti i piccoli paesi stanno avendo un momento severo di malessere, e soprattutto quelli che non hanno finestre fortunate su una geografia comoda o avvantaggiata stanno soffrendo la malattia nervosa di un'economia debole, di un impoverimento delle casse comunali, di una dinamica sociale che arranca su manovre di ripresa che sono troppo lontane da noi. La nostra vita quotidiana si attesta su uno standard di mediocrità insoddisfacente, anche gli anziani seduti curvi sulle panchine sembrano più rassegnati che partecipi. Guardano il paese con un occhio apatico, indolente, e in fondo in fondo, al di là del dispiacere di non potersi vivere figli lontani o nipoti semi sconosciuti, l'unica cosa che per loro conti veramente è la speranza di continuare a stare seduti su queste panchine tristi piuttosto che stare stesi in un'altra sistemazione. I bambini sono sempre meno numerosi, quando trovi un gruppetto che si rincorre vedi quel momento come una festa benedetta dal cielo. Le ragazze ed i ragazzi del mio paese sono bellissimi, hanno i denti sani ed i capelli puliti, sono intelligenti, si alzano presto la mattina per andare in città a scuola, ma si vedono poco in giro, semplicemente perché ce ne sono pochi. In questi luoghi dove c'è il tanfo della sopravvivenza lo spirito della conoscenza spinge a guardare oltre la curva dissestata, la piazza semideserta, lo scontento del niente. Vivi qui e hai la sensazione destabilizzante di essere in prestito a questo luogo, quasi in uno stato di passaggio nell'attesa della buona occasione che si faccia per te portavoce di una nuova possibilità, rassicurando i tuoi dubbi con la promessa intima e furba che il legame con queste pietre antiche non si sfalderà mai, che è solo un cambiamento necessario, un'andata certa con un ritorno che poi si vedrà..
Ora, vorrei che da queste considerazioni venisse fuori il dispiacere, qualche rammarico, l'inevitabile lucidità dei fatti, non altro. Il dispiacere, appunto, di avvertire sempre di più l'inadempienza della politica che conta verso queste realtà in disuso progressivo. Come se tutto quello che ancora potessimo offrire è solo un passaggio elettorale, un elogio al castello, un assaggio gratis alla storica mozzarella locale o l'omaggio del pacco di tarallini. Come se geograficamente e umanamente fossimo dimenticati nelle riserve, come gli indiani, con la differenza che gli indiani bastano forse a se stessi, noi no.
È bello, il mio paese, ma sta dimagrendo di uomini e di idee, sta perdendo energia per portarla altrove, non bastano il mercato del mercoledì e le preghiere alle novene, non sono sufficienti le cene con gli amici o il caffè al ginseng che offri al bar, felice di aver incontrato qualcuno. La verità è che sono tutti belli, questi dignitosi e antichi paesi sui confini poco battuti di queste regioni, ma soffrono pesantemente l'asma di un'economia egoista e avara, di poca attenzione e di ascolto tradito più e più volte.
Io continuo a fare fotografie, all'alba ed al tramonto. Con gli alberi pieni di foglie o con le foglie cadute, con i piccioni in controtendenza che aumentano, con il sole che disegna i contorni del castello o con quel cielo inquietante che ci butta addosso lo stupore di un rosso che sembra un veleno antico ed assassino. Ogni scatto un atto di dolore, o di orgoglio che sfonda il dolore e diventa rabbia. Ogni scatto un messaggio ed una commozione. Perché anche quando il paesaggio diventa umanamente desolato, la bellezza millenaria delle pietre può consolarlo.
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