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Rubrica di legge e di miti (2): infanticidio e omicidio

La Medea di Euripide, una tragedia da ergastolo

La straniera tradita e bandita dalla città, medita una atroce vendetta contro l'uomo che amava: uccide i suoi due figli

La Medea di Euripide, una tragedia da ergastolo

Maria Callas, grande interprete di Medea nel film di Pasolini e nell'opera lirica di Cherubini

Ecco la seconda puntata della rubrica settimanale che interpreta i miti alla luce della legislazione vigente in Italia. Spesso infatti nei racconti Greci si trovano prefigurati gli archetipi di alcuni reati. La mitologia fornisce immagini suggestive dei comportamenti umani, aiutando il lettore a conoscerne meglio l'animo e offrendo dei paradigmi immediati cui rivolgersi.

Medea: «La donna infatti per il resto è piena di paura, ma quando venga offesa nel letto non c'è altro cuore più sanguinario».

Euripide

Atene, anno 431 avanti Cristo, oggi a teatro si assiste a una delle storie più agghiaccianti che la tragedia greca abbia tramandato: la storia di Medea. In particolare del mito si analizzerà la versione del tragediografo Euripide, che per primo riduce gli eroi a semplici uomini che vivono un doloroso dramma interiore. Medea è la figlia di Eéte, re della Colchide (sulla costa orientale del Mar Nero) per parte di padre, per parte di madre o della ninfa Idia o della signora delle maghe, la potente Ecate. Ma le discendenze illustri non finiscono qui: Medea è imparentata anche con il Sole e con la maga Circe. È forse noto che la sua storia s’intrecci con quella di Giasone, originario di Iolco (Tessaglia), che assiste allo spodestamento del padre per mano dello zio Pelia e, divenuto adulto, pretende il trono a lui spettante. Pelia per eliminare lo scomodo nipote gli impone una sorta di mission impossible a seguito della quale avrebbe ceduto il trono: recarsi nella Colchide e prendere il famoso vello d’oro. Giasone suo malgrado accetta di affrontare l’impresa e sbarca in Colchide (tutte le peripezie del viaggio sono raccontate nelle Argonautiche di Apollonio Rodio). Subito rivela il suo scopo al re, che acconsente a cedere il vello a patto che Giasone superi due prove impossibili per un comune essere umano ma, ad aiutarlo ci penserà Medea, la giovane figlia del re che si è perdutamente innamorata dello straniero. Giasone le promette di sposarla e portarla con sé in Grecia: Medea vive in luogo lontano dalla Grecia e la vede il paradiso della civiltà, della cultura. Immagina un futuro migliore accanto a lui, così, con le sue arti magiche, decide di aiutarlo. Le grandi capacità di Medea sono contenute già nel suo nome che in greco significa «colei che escogita o colei che si prende cura». Tutto va per il meglio ma, nonostante il superamento delle prove, Eéte non mantiene la promessa fatta a Giasone, il quale si reca ugualmente nel boschetto e, con una dolce musica fa addormentare il drago a guardia del vello, sempre su consiglio di Medea. È fatta: il vello è nelle mani di Giasone, ma bisogna fuggire. Medea si unisce al gruppo e, per poter ritardare l’inseguimento del padre e del figlio primogenito, nonché fratello di Medea, Apsirto, lo fa a pezzi e ne disperde le membra. Insomma la forte personalità e la passionalità di Medea si sono già manifestate. Per amore ha tradito il padre e ha ucciso il fratello. Ci sarebbe tanto da dire, ma questo è solo l’antefatto. La storia che racconta Euripide si colloca dieci anni dopo gli avvenimenti descritti. La coppia è a Corinto, perché è stata bandita da Iolco: Pelia non ha rispettato i patti e Medea ha convinto le figlie a bollirlo in un calderone da cui ne sarebbe venuto fuori ringiovanito. Dopo dieci anni di vita insieme e due figli (in alcune versioni è soltanto uno) Giasone ha deciso di ripudiare Medea e di unirsi a Glauce o Creusa figlia di Creonte, re di Corinto: così potrà di nuovo essere re e liberarsi della forte e pesante presenza di Medea, di cui anche lui ha paura. A Corinto vogliono liberarsene, Giasone vuole liberarsene e Creonte la bandisce dalla città. Medea chiede un giorno, un giorno soltanto di proroga. È da qui che inizia la tragedia interiore di Medea che sfocerà nel delitto più terribile: l’uccisione della futura sposa, di Creonte e dei due figli avuti con Giasone.
Il codice penale, all’articolo 578 descrive l’infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.
«La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a 12 anni (...)».
Lo stato di abbandono della madre, concetto assai discusso e passibile di diverse interpretazioni è stato così chiarito dalla giurisprudenza: «Deve esistere da tempo e costituire una condizione di vita, che si sostanzia nell’isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale, produttivo di un profondo turbamento spirituale, che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza, in molte partorienti immuni da processi morbosi mentali e, tuttavia, coinvolte psichicamente al punto da smarrire almeno in parte il lume della ragione» (Cassazione, sezione prima, 25 novembre 1999, sentenza numero 1.387; Cassazione, sezione prima, 7 ottobre 2009, sentenza numero 41.889).
Ebbene lo stato di abbandono morale e materiale è già presente nel mito di Medea. La Nutrice, che conosce bene la padrona e le è legata, la descrive così:
«(…) Giace senza toccare cibo, preda di dolori, struggendosi di lacrime tutto il tempo, sentendosi una vittima dell’uomo suo, non alza gli occhi e il viso non lo stacca dal suolo, sorda ai moniti come una pietra o un’onda in mezzo al mare; solo a tratti volgendo il collo bianco, compiange con un gemito tra sé e sé suo padre, la sua terra e quella casa che abbandonò partendo a questa volta con l’uomo che le ha fatto oltraggio. Ora gliel’ha insegnato la sventura, disgraziata, cosa mai significhi non perdere una patria. Detesta i figli, lungi dal rallegrarsi di vederli. Io per lei sono piena di paura che vada meditando chissà che. Ha un’indole violenta e questo colpo non lo reggerà: com’è fatta lo so».
Medea si è di certo isolata materialmente e moralmente dal contesto familiare, ma lo è anche da quello sociale: non si è mai veramente integrata a Corinto, è straniera è donna, è sapiente: fa paura
«(…) Lo straniero bisogna che s’adegui alla città che l’ospita, e non lodo un meteco spavaldo, che riesca inviso ai cittadini per rozzezza. (…) Se poi la donna arriva in un paese nuovo con nuove leggi e costumanze deve essere indovina ché da prima, a casa sua, nessuno glielo ha detto con quale sposo avrà rapporto. (…) Tu [rivolgendosi alla corifea] possiedi una patria, questa, e hai una casa paterna, un’esistenza agiata e tanti amici. Io sono sola al mondo, senza patria, e mio marito mi oltraggia: mi rapì come una preda da un paese straniero, e qui non ho né madre, né un fratello, né un parente che sia come un’àncora nella sventura.(…)».
[A Creonte] «(…) Prova a presentare verità nuove a ignoranti: sarai stimato non sapiente, ma disutile: chi poi sarà stimato più valente di chi crede d’avere una cultura varia, in città darà molto fastidio. È il caso mio. Sono sapiente, ma invidiata dagli uni, e come un pruno negli occhi ad altri. E poi, troppo sapiente non sono. (…)».
L’isolamento materiale e morale deve, poi, essere «produttivo di un profondo turbamento spirituale, che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza (...)».
Medea nell’unico giorno a lei concesso alterna momenti di lucidità e freddezza a momenti di pentimento e pianto. In un primo tempo vuole uccidere Creonte, la figlia e Giasone:
«(…) in un sol giorno farò di tre nemici tre cadaveri: padre e figlia e lo sposo mio. Ne ho di vie di morte anche troppe, per loro, e non so quale scegliere (…)».
Dopo un colloquio con Giasone, però, inasprisce la sua ira e in modo lucido e calcolato decide di cominciare a uccidere la futura sposa: sfruttando i suoi figli le manderà una tunica mortale. Il piano viene esposto con molta lucidità, che però viene meno e sfocia in un pianto nel momento in cui rivela la seconda atroce parte:
«(...) Non riesco più a frenare il pianto pensando a quello che poi dovrò fare. Ucciderò i miei figli, le mie creature. Nessuno li potrà salvare. La casa di Giasone tutta la annienterò e poi fuggirò da questa terra, dopo aver spento la vita dei miei figli, dopo... la cosa più orrenda di tutte. Ma non sopporterei, o donne, lo scherno dei nemici. E sia. Perché vivere poi? Non ho patria, né casa, né posso sfuggire ai miei mali. Allora ho sbagliato, quando lasciai la casa di mio padre e credetti alle parole di un greco che ora dovrà pagare. Mai potrà vederli vivi i figli che da me sono nati e neppure potrà avere un figlio dalla sua nuova sposa, poiché per i miei veleni ella dovrà morire, atrocemente, come è giusto che sia.».
Medea inviando la veste provoca la morte di Glauce e del padre Creonte, accorso per aiutarla. Poi è il turno dei figli, che dopo tante esitazioni decide di uccidere, soprattutto perché se non lo avesse fatto lei, l'avrebbero fatto altri: hanno portato loro la veste mortale e sono figli di Medea. Alternando momenti di pianto a istanti di convinzione, si decide a impugnare il pugnale e scagliarsi contro i due bambini. Ora è pronta a fuggire, ma attende l'arrivo di Giasone per assistere alla sua distruzione morale definitiva. Tante donne che nella cronaca hanno commesso lo stesso reato, invece, decidono di togliersi la vita. E se finora è parso di poter ipotizzare un infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale (articolo 578 del codice penale), il fatto che i figli di Medea abbiano superato l'anno di età e che l'abbandono morale e materiale non abbia fatto perdere lucidità alla protagonista (che invece premedita e calcola ogni mossa) alternandovi naturali momenti di materno dolore, rende evidente che si tratta di omicidio. L'articolo 575 del codice penale afferma che:

«Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21».

Nel caso di Medea si applicherebbero anche le circostanze aggravanti. La pena prevista è l'ergastolo. Al comma due, il codice penale afferma che:

«Si applica la pena dell'ergastolo se l'omicidio è commesso contro l'ascendente o il discendente (…) o quando è adoperato un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso, ovvero quando vi è premeditazione».
Medea può essere osservata sotto molti punti di vista: la straniera non integrata, la donna che descrive la misera condizione delle donne in Grecia, la moglie tradita, colei che per amore compie le più grandi follie. Ma osservandola dal punto di vista del codice penale è forse una delle figure più disumane, tanto che la legislazione italiana per quei reati prevede il massimo della pena. Il gesto di Medea non si è fermato al 431 avanti Cristo, ma l'esistenza di una sindrome che porta il suo nome rende evidente che la realtà non è diversa dal mito.

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