Rubrica di legge e di miti (3): spinto verso la morte
24.09.2017 - 20:02
Anfora attica a figure nere di Exechias, raffigurante i preparativi di Aiace per il suicidio, databile al 540 circa (Bologna, Museo, Municipale)
Ecco la terza puntata della rubrica settimanale che interpreta i miti alla luce della legislazione vigente in Italia. Spesso infatti nei racconti Greci si trovano prefigurati gli archetipi di alcuni reati. La mitologia fornisce immagini suggestive dei comportamenti umani, aiutando il lettore a conoscerne meglio l'animo e offrendo dei paradigmi immediati cui rivolgersi.
Aiace: «Chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere
o gloriosamente morire»
Sofocle
Roberto Vecchioni nel suo libro Il mercante di luce narra la storia del professor Stefano Quondam che tramite i classici offre al figlio affetto da progeria degli spunti e degli ideali per vivere i suoi ultimi giorni. Tra questi c'è anche la triste vicenda di Aiace Telamonio, un eroe che vive battendosi per grandi ideali, fino alla morte. Un eroe che nessuno comprende e che lotta nella solitudine. Un eroe profondamente umano: padrone delle sue scelte, ma non immune dalla sofferenza.
«Ti racconterò una storia, anzi la storia della storia», disse
«La storia della storia?»
«Sì, tu sai cosa significano àndres e andréia in greco…»
«Certo: “uomini” e “valore”, sono quasi la stessa parola: non sei una cosa se non hai l’altra…»
«Quasi. In realtà “valore” come interpretazione è fumosa, un bel po’ ballerina. L’andréia è un insieme di tanti significati, che neppure immagini: è coraggio, forza, è l’animo, l’abito che porti, la fedeltà a un’idea, a te stesso, la nobiltà di pensiero, l’orgoglio delle tue azioni, è in definitiva la “coerenza”. La storia di Aiace Telamonio dice tutto».
«Quello dell’Iliade?»
«Anche, ma soprattutto quello di Pindaro, quello di Sofocle. Alla morte di Achille, immenso nell’ira e nel coraggio, Aiace si aspettava che le sue armi gli fossero date in premio, perché ne era il più degno, perché non aveva tremato di fronte a nessun nemico, era il più simile, il più vicino ad Achille, e perché insomma solo lui se le meritava, sarebbe stato giusto così. Ma così non fu: Ulisse, con i suoi raggiri e le sue menzogne, incantò e convinse gli achei, e le armi furono sue. Sia stata Atena, invadente e invidiosa, siano stati lo sconforto e la rabbia, Aiace non sopportò quella plateale ingiustizia e uscì dalla tenda nottetempo per sterminare i capi degli achei. Ma nel suo vaneggiare, nella nebbia in cui vagolava la sua mente, scambiò montoni e pecore per guerrieri e fece una strage di animali. Quando si risvegliò e se ne accorse, non resistette alla vergogna e, malgrado le suppliche e i pianti della sua donna, si uccise. (…)».
Aiace, dunque, si uccide. O meglio, è portato a farlo. Gli viene negato, con il raggiro, il premio che meritava, un grande, grandissimo disonore per un guerriero. Viene oltraggiato in un aspetto per lui essenziale, ovvero che costituiva il senso della sua vita. E, soprattutto, in modo ingiusto, perché l’erede di Achille era lui. Invece viene premiato Ulisse, un eroe portatore di nuovi valori, come la scaltrezza e il raggiro. A questo primo colpo, infertogli proprio dai suoi compagni d’armi, che lo avevano sempre detestato per la sua testardaggine, se ne aggiunge un altro. Definitivo. La pazzia, mandata dalla dea Atena, che gli fa compiere un gesto folle: uccide una mandria di buoi credendo siano uomini (lo stesso gesto farà don Chisciotte…). Aiace, però, non è pazzo, viene colpito da quello che oggi si chiama raptus. Per gli antichi era, invece, un offuscamento mandato dagli dei. Il coro, che nella tragedia di Sofocle rappresenta la società, per mezzo di un corifeo, racconta ad Aiace il disonore e il ludibrio pubblico di cui ormai è preda:
« (…) e così nella notte che s’è spenta, grandi voci ci sono giunte, voci di disonore: che tu abbia invaso il prato battuto da veloci cavalli e distrutto le greggi dei Danai, quanto ancora restava della preda conquistata, facendo strage col tuo ferro balenante. Tali voci Ulisse inventa e sussurra agli orecchi di tutti, e assai persuade: quanto ora dice di te è creduto degno di fede, e chiunque ascolta gode, ancora più di chi parla, nell’esultare ai tuoi dolori. (…) Da gente simile sei fatto oggetto di calunnie, e noi senza il tuo aiuto, o signore, non abbiamo la forza di respingere queste infamie. Essi, quando sfuggono al tuo sguardo, schiamazzano come stromi di uccelli: ma se improvviso tu apparissi, subito, privi di voce, si rannicchierebbero in silenzio».
L’eroe, quindi, viene distrutto completamente nel suo essere, prima dalla cattiveria umana, poi dalla follia. Entra in un tunnel di solitudine che avrà per lui un solo sbocco possibile. Il nostro codice penale postula all’articolo 580:
«Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a 12 anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate ai numeri 1 e 2 dell’articolo precedente (Contro una persona minore degli anni diciotto; Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti). Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni 14 o comunque priva della capacità d’intendere e di volere, si applicano le diposizioni relative all’omicidio».
Per Aiace, dunque, si può parlare di istigazione o aiuto al suicidio? Egli stesso dirà:
« (…) Ed ora che devo fare? Manifestamente sono inviso agli dei; l’esercito dei greci mi aborre e mi odiano tutta Troia e queste pianure. Dovrei forse far ritorno in patria? E quale volto mostrerò a mio padre comparendogli innanzi? Come potrà egli sopportare di vedermi apparire nudo, senza i trofei? No, non è sopportabile questo. È turpe che desideri una lunga vita chi nei suoi mali non vede mutamento alcuno. (…)».
Aiace era odiato, viene ferito pubblicamente con un grave oltraggio, viene deriso da tutti nel momento in cui compie il gesto folle e viene abbandonato nel momento in cui tutti avevano capito ciò che avrebbe fatto. Che la cosa faccia piacere poi a molti lo dirà Tecmessa, la sua donna:
«Ridano pure e gioiscano dei suoi mali. Ma forse, se non lo amavano vivo, morto lo potranno rimpiangere, nella pressante necessità della guerra. Gli stolti non riconoscono il bene che hanno tra le mani, prima di perderlo. Amara per me e a loro gradita, questa morte per lui non fu che dolcezza: s’acquistò quel che bramava ottenere, la morte che voleva. Perché dovrebbero ridere di lui? Egli è morto per volontà degli dei, non per opera loro, no. Dunque Ulisse sfoghi pure la sua insolenza nel vuoto. (…) ».
A differenza di ciò che ci si aspetterebbe, Tecmessa comprende la scelta di Aiace, e non vuole dare agli achei la soddisfazione di pensare di aver vinto, la colpa la dà agli dei. È vero, Aiace compie una scelta consapevole, ma la sua distruzione è avvenuta per mano della società e anche in condizioni di instabilità psichica.
Aiace è ancora oggi in tante persone che si tolgono la vita, perché un video sconveniente gira in rete, perché viene loro detto che portano sfortuna, perché una società che ti esalta poi ti abbandona. Infine, come fa notare Sofocle, non c’è chi vince e chi perde. Ma come dirà Tecmessa: «Per me, andandosene, ha lasciato sventure e gemiti».
La conclusione a Vecchioni:
«Ho letto che dopo la morte di Aiace le armi di Achille sono volate nella sua tomba…»
«Ci sono verità che la scienza e la logica manco si sognano».
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