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Caso Romano. Sono innumerevoli i commenti degli esperti sull’argomento, molti elaborano l’ipotesi della cosiddetta Sindrome di Stoccolma, ma cos'è realmente? Parla la psicologa

Dottoressa Mincarone: «Parlare di diagnosi relativamente al caso di Silvia Romano, allo stato attuale dei fatti, è improprio, poiché il processo diagnostico si connota di un iter di valutazione specifico e mirato»

Caso Romano. Sono innumerevoli i commenti degli esperti sull’argomento, molti elaborano l’ipotesi della cosiddetta Sindrome di Stoccolma, ma cos'è realmente? Parla la psicologa

Silvia Romano

Aeroporto di Ciampino, 10 maggio 2020. Silvia Romano è tornata a casa, in quella Italia invasa dalla pandemia, dove i sorrisi si esprimono solo attraverso lo sguardo. È tornata a casa, con abiti diversi, con un altro nome, convertita all’Islam in un mondo che non perdona i cambiamenti. In molti affermano che la sua conversione non sia stata una scelta libera, la paura di morire e il tentativo di salvarsi hanno forse acceso in lei questa piccola fiammella di speranza. Ogni qual volta si parla di sequestri, le diagnosi frettolose si sprecano, nel caso di Silvia alcuni fanno riferimento alla “Sindrome di Stoccolma”, la condizione psicologica che induce la vittima di un rapimento a provare sentimenti positivi di ammirazione e di identificazione nei confronti del proprio aguzzino. Nel 1978, la vicenda di Giovanna Amati, 18enne rapita e violentata da Daniel Nieto, è forse uno tra i casi più emblematici di Sindrome di Stoccolma, la prigioniera, infatti, si affeziona al suo carceriere. Giovanna non è la sola, molti i casi che hanno sconvolto l’opinione pubblica: quelli di Patricia Hearst, Natascha Kampusch, Clara Rojas e di Gianni Ferrara, bambino di 8 anni che strinse un rapporto morboso con i rapinatori tanto da inveire contro la Polizia nel momento del ritrovamento. Non è possibile al momento sapere se le scelte di Silvia siano state dettate da questo stato di dipendenza psicologica, ciò che è certo è che «Non basta una vita per liberarsi di un sequestro» afferma Giuliana Sgrena, giornalista rapita a Baghdad nel 2005. Ma cos’è la Sindrome di Stoccolma, e come si evolve? La dottoressa Giuseppina Mincarone, psicologa Clinica e di comunità, ha fatto chiarezza sull’argomento rispondendo alle domande della redazione del Mattino.

Sindrome di Stoccolma. Cos’è realmente?

«La Sindrome di Stoccolma trae la sua denominazione dalla famosa vicenda datata agosto 1973, quando, due detenuti evasi dal carcere di Stoccolma tentarono una rapina alla sede della “Sveriges kredit bank”, traendo in ostaggio quattro impiegati, tre donne e un uomo.  Successivamente al loro rilascio, nel corso dei numerosi colloqui psicologici, emerse da parte dei sequestrati il manifestarsi di sentimenti positivi, di gratitudine e di ammirazione nei confronti dei sequestratori, e, paradossalmente, esternavano un palese rifiuto verso tutto ciò che si scontrava con la mentalità e le intenzioni dei loro “carnefici”. La Sindrome di Stoccolma, pur non essendo annoverata nei più importanti manuali diagnostici come un vero e proprio disturbo, evidenzia, tuttavia, un insieme di attivazioni emotive e comportamentali tipiche di persone che hanno vissuto situazioni traumatiche. Pertanto, da psicologa clinica, ritengo sia importante approfondire e non sottovalutare tali dinamiche, soprattutto in relazione a quei fattori protettivi implicati nello sviluppo e nel mantenimento del trauma, la relazione con il carnefice, per l’appunto».

Un argomento attualissimo, il caso Romano l’ha portato ancor di più alla ribalta. Il dibattito è fortemente incentrato sulla questione, ovviamente non si ha nessuna certezza di tale diagnosi. Cosa accade alla persona che viene presa in ostaggio?

«Ritengo, a tal proposito, sia doveroso fare una precisazione, parlare di diagnosi relativamente al caso di Silvia Romano, allo stato attuale dei fatti, è improprio, poiché il processo diagnostico si connota di un iter di valutazione specifico e mirato. Il riferimento alla Sindrome di Stoccolma potrebbe, ad ogni modo, aiutare meglio a comprendere aspetti di questa vicenda su cui avanza un po’ di perplessità. La Sindrome di Stoccolma, infatti, rappresenta un chiaro esempio di un meccanismo di difesa psicologico: l’Identificazione con l’aggressore. Quando una persona si trova a vivere una situazione di impotenza, come nel caso di un rapimento, tende a sviluppare una dipendenza psicologica nei confronti del suo carnefice e ciò ne comporta una sottomissione assoluta. Si viene, così, ad instaurare tra vittima e carnefice un legame affettivo, di natura “traumatica”. Significative dosi di terrore ed angoscia provocano una regressione allo stadio infantile: il carnefice viene vissuto come protettivo in quanto soddisfa i bisogni fisiologici primari, quali mangiare, bere e dormire. Si tratta di una reazione emotiva automatica ed inconscia che il ruolo di vittima concretizza: se ci si sottomette si hanno più possibilità di sopravvivenza».

Dopo uno shock così grande, è possibile ritornare a prendere in mano le redini della propria esistenza?

«Sebbene il trauma abbia un carattere di oggettiva gravità, è sempre definito in rapporto alle capacità del soggetto di sostenerne le conseguenze. In molti casi, in seguito ad un evento traumatico, potrebbero svilupparsi delle psicopatologie. È importante, però, ribadire che non tutte le persone che vivono un trauma sviluppano un disturbo. Ho accennato in precedenza ai fattori “protettivi” che riducono il manifestarsi di effetti disfunzionali, tra questi, oltre all’età della persona, alle caratteristiche di personalità, ritroviamo anche la possibilità e la capacità di comunicare agli altri quanto accaduto. Un tempestivo sostegno psicologico è fondamentale per consentire alla persona di riappropriarsi delle sue naturali capacità di resilienza e guardare al futuro con speranza progettuale».

 

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