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Intervista: Massimiliano Gallo e la scommessa vinta de "Il Napolista"

Intervista: Massimiliano Gallo e la scommessa vinta de "Il Napolista"

Massimiliano Gallo

Il Napoli è nell'occhio del ciclone perché dopo 33 anni, dall’ultimo scudetto vinto con Maradona, e dopo un Campionato di serie A che l’ha visto primo in classifica, da subito, in maniera netta, conquisterà il suo terzo, epico, scudetto.
Uno scudetto questo che è frutto di una rivoluzione imprenditoriale, rivoluzione imprenditoriale che per compiersi ha dovuto impiegare 18 anni, una rivoluzione imprenditoriale che porta il nome di Aurelio De Laurentiis, il presidente, e il proprietario, dell'unica squadra di calcio italiana, e di serie A, ad avere i conti in attivo. Un presidente che ha tenuto in poco conto tutte le polemiche, e anche gli sfottò, che in questi anni hanno accompagnato il suo operato, e il risultato è proprio questo scudetto, scudetto che di fatto mette Napoli in un'altra prospettiva.
Per capire cosa sia accaduto, e come sia stato possibile per una squadra di calcio modificare l'andamento di una città anarchica e complicata come è l’ antica Partenope, ho fatto una chiacchierata con Massimiliano Gallo, direttore e proprietario de “Il Napolista”, un giornale che Napoli e questa squadra ha seguito, al punto di averne afferrato lo spirito e la prorompente modernità.

Perché “Il Napolista”?
«Quando io e Fabrizio D' Esposito decidemmo di dare vita a questo giornale lavoravamo a “Il Riformista”, e pensammo che a Napoli ci fosse bisogno di un giornale capace di raccontare la città, attraverso il calcio, in maniera libertaria e garantista, e cioè con gli stessi presupposti con cui era nato “Il Riformista”. Così nacque "Il Napolista"».
In quale momento il giornale ha davvero iniziato a essere un punto di riferimento ?
«La credibilità e la visibilità è arrivata già nel 2010, e quello che era nato come un gioco è diventato un’altra cosa. Nel mentre Fabrizio D'Esposito è andato a lavorare a “Il Fatto Quotidiano” e così mi sono ritrovato a gestire un giornale sia come direttore sia come proprietario. Tutto questo è stato possibile perché il calcio è stato sempre una mia grande passione, ma se negli anni ‘70 e ‘80 non era una passione da esibire (il calcio era considerato uno sport troppo popolare, inflazionato) poi il calcio è diventato un enorme occhio di bue, capace di dare una grande e diversa visibilità, non solo ai calciatori e alle società ma anche alle città, come è accaduto a Napoli».
Chi è stato il primo allenatore che a Napoli ha portato un modo nuovo di leggere il calcio?
«Benitez è stato il primo che ha sprovincializzato il calcio a Napoli, il primo a dire che era necessario pensare a Napoli non più come a una città diversa, ma bensì come a una città uguale alle altre. Un fatto di cui “Il Napolista” è stato sempre convinto, fino dall’atto della sua fondazione, un fatto importante che ha permesso al giornale di crescere, anzi quello è stato per il giornale il primo e vero momento di crescita».
"Il Napolista" per questa scelta editoriale è costantemente bersagliato, come fate a non farvi coinvolgere dalle critiche pesanti che vi fanno?
«Prima a essere sinceri era anche peggio, poi piano piano abbiamo iniziato a disinteressarcene, anche se certe volte è difficile non intervenire, basta autocensurarsi, anche se è faticoso ma è l’unico modo per non perdere professionalità e credibilità. In fondo chi fa polemica lancia un petardo e poi si gira senza preoccuparsi di ciò che accadrà».
Perché è stato, ed è, così difficile fare accettare a Napoli la sua uguaglianza agli altri luoghi pur nella sua diversità?
«Perché noi siamo stati considerati dai napoletani degli apostati, per il nostro non volere seguire la narrazione integralista sulla città. Il suo essere aperta alle altre culture e la presenza di grosse sacche di povertà hanno fatto sì che mai ci fosse una crescita sociale differente qui. A Napoli l’alto e il basso si incontrano, al punto da dare luogo a questo incancrenirsi dello stereotipo, a discapito proprio della grande vitalità della città, senza scomodare Raffaele La Capria, ma forse scomodando Benedetto Croce».
Come si inserisce in tutto questo Aurelio De Laurentiis?
«De Laurentiis ha reso chiaro questo rapporto, un rapporto che proprio attraverso il calcio oggi si comprende meglio. Lui ha stravolto tutto, non si è fatto condizionare, addirittura a Napoli non è proprietario di niente, e non ha niente, come a volere guardare la città con distacco e freddezza per potere meglio operare, senza farsi coinvolgere».
Un atteggiamento sano il suo, da imprenditore
«Infatti questo scudetto è frutto di un progetto manageriale e di programmazione. È frutto di una visione d'insieme e di un lavoro di squadra, insomma è figlio della Napoli vera, quella che fa da apripista in qualsiasi settore e nel mondo».
Un po’ come "Il Napolista"
«Il Napolista è molto seguito e molto apprezzato lontano da Napoli. È un punto di riferimento, oserei dire, per i tanti che da Napoli sono andati via e altrove, e che guardano alla città in maniera differente, cioè la vedono per quello che è: una metropoli, appassionata ma pur sempre una metropoli uguale alle altre».
Come vede "Il Napolista" questa festa annunciata prima della fine del Campionato?
«La festa non è un fatto primario, è invece importante sottolineare come questo Napoli, questo presidente, e questa squadra abbiano modificato la narrazione sulla città, una cosa che all'estero è arrivata e che pone De Laurentiis, la squadra e la città in una prospettiva più ampia, alla Benitez, giusto per chiudere questo cerchio magico».
Cosa fa "Il Napolista" quando non lavora?
«Ho innanzitutto una famiglia da seguire e a cui tengo, poi gioco a tennis, leggo, vado a cinema e vedo molti film. Ho molti abbonamenti ai canali tematici, mi piace Jean Gabin, per esempio, insomma mi piacciono i film drammatici».
È soddisfatto?
«Sì, il lavoro che faccio mi piace e mi diverte, anche e soprattutto perché sono rimasto me stesso. All'inizio mi mancava il confronto che c’è nella redazione di un giornale, la solitudine mi pesava un po', poi si arriva ad un punto in cui la solitudine diventa libertà. Devo però dire una cosa, senza l'esperienza de “Il Riformista” sarebbe stato difficile arrivare fin qui. “Il Riformista” è stata una scuola importante, di grande apertura, una cosa che mi ha permesso di non farmi condizionare e di potere fare il mio lavoro in maniera sempre più professionale».

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